#13 Cose nella nebbia
Questa lettera è un di più, ma necessario per me. Parliamo di nebbia, di paura e di un libro che parla di paura e di nebbia.
Ciao a te, che stai leggendo 🍪
Ebbene sì: a sorpresa, arrivo a inizio febbraio con un’altra lettera, perché una settimana fa è accaduta una cosa per me molto importante. Una cosa che ha a che fare con la nebbia della pianura padana, ciò che si nasconde dentro e la paura, e non volevo che la prima newsletter dell’anno fosse così– ahem – cupa. Perciò, doppio appuntamento, con una lettera un po’ diversa, più personale: è uscito il mio secondo romanzo. È molto breve, in realtà.
Si intitola La Borda, è una storia per ragazzi e ragazze, ed è pubblicata per Edizioni Piuma in una nuova, fighissima collana, I Notturni, curata da Francesca Di Martino e Alan T. Bassi. Ha una sorta di astuccio-contenitore con una doppia cover, che racchiude il romanzo. Aggiungo: ci sono pure le illustrazioni interne di Alida Pintus, illustratrice stratosferica che è riuscita a cogliere l’essenza dei personaggi e delle personagge in maniera meravigliosa (e che non ringrazierò mai abbastanza).
Si dice che il secondo romanzo sia il più difficile, e in qualche modo lo è stato. Ma è stato anche divertente e oscuro, e vorrei parlartene.
Cose che fanno paura
«Quell’autunno, la nebbia arrivò in anticipo. Silenziosa e improvvisa.
Ci svegliammo una domenica mattina ed era lì, come se ci fosse sempre stata. Come se non esistesse altra realtà diversa da quella. Borgo Fossolungo era stato inghiottito in una bolla grigia, solo la croce del campanile riusciva a bucarla e a emergere.In genere la nebbia arrivava ogni anno verso metà novembre, salendo dall’unico tratto scoperto del canale che tagliava in due il paese, e si mangiava gli alberi, le case, le strade, poi i campi attorno.
Gli adulti diventavano strani, quando accadeva. Erano nervosi e irrequieti, ma anche rassegnati, come chi si trova di fronte a una guerra che sa di non poter evitare né vincere. Dicevano che la nebbia non annuncia mai nulla di buono. Come quella volta, tanti anni fa: non videro il sole per quarantadue giorni. Quarantadue giorni di grigio, di vuoto, di freddo costante che ghiacciava le ossa e nemmeno la cioccolata calda davanti al camino con doppia panna montata scacciava. In quei quarantadue giorni c’erano stati otto incidenti e due ragazzini erano scomparsi. Due fratelli.
Avevano più o meno la mia età, la stessa di Set e Lu.
Anche di Mars, Jess e Kev.
Due ragazzini come noi.
Questo è l’incipit del romanzo.
È una storia ambientata nel paese in cui vivo, perché la nebbia qui, è spesso una costante. Negli ultimi anni un po’ meno, ma io lo ricordo quando, da bambina, scendeva una nebbia talmente fitta che per tornare a casa dovevi fare affidamento sulla memoria. Ricordare ogni curva, ogni rettilineo, ogni cartello stradale, per non rischiare di finire nel fosso. “La nebbia sembra un oceano / quanti ragazzi ci annegano”, cantano Cesare Cremonini e Luca Carboni in San Luca, ed è proprio così. Una nebbia densa, sterminata, che cancella la linea dell’orizzonte e nasconde le cose.
I mostri nascono sempre da paure specifiche. Come la Borda, una creatura del folklore emiliano-romagnolo che nasce proprio dalla paura che gli abitanti di un’Emilia-Romagna acquitrinosa e paludosa avevano di questa zona, soprattutto nei giorni di nebbia. La paura è un elemento che mi ha accompagnata in tutto il percorso, anche perché, a ben pensarci, ogni volta che scriviamo ci confrontiamo con la paura. A molte persone, d’altronde, un foglio bianco spaventa tantissimo. Scrivere è un gesto che può essere spaventoso: ci costringe a fare i conti con molte cose, come la paura del fallimento o quella di non essere all’altezza, la paura di non riuscire a portare a termine un progetto che abbiamo cominciato, di non avere più idee o di non averne di abbastanza buone, di essere banali o di non riuscire a mettere nero su bianco ciò che abbiamo in testa nella maniera in cui vorremmo. La paura di essere giudicati.
Scrivere questa storia e, ora, vederla uscire per essere sottoposta al giudizio altrui fa paura. E questa che ho scritto, alla fine, è una storia di paura. Di molte paure, in realtà: le mie, quelle del protagonista, Tommi aka Tappo, Tappetto, o Sfigato, quelle di un intero paese e di una generazione. È una storia sul potere delle storie che ci raccontiamo, che a volte ci incatenano senza permetterci ci muoverci. Di andare avanti.
[ Se ti ho incuriosito/a e vuoi scoprire qualcosa di più sulla trama, puoi approfondire qui ]
“Perché scrivi libri di paura?”
Questa domanda mi è stata fatta spesso nell’ultimo anno. E che continuano a farmi, ragazzi e ragazze, soprattutto. Perché loro, a differenza degli adulti, non hanno filtri e vanno dritti al punto: vogliono sapere e non c’è possibilità di mentire.
La prima volta che me l’hanno posta, non sapevo bene cosa rispondere. Io, in fondo, sono una gran fifona. Se guardo un film horror, non dormo per notti intere. Ricordo ancora di quando, da ragazzina, non ho chiuso occhio per una settimana dopo aver visto La Mummia (sì, fa ridere, lo so). Ma con i libri è diverso. Perché? Perché è bello leggere libri o racconti che fanno paura? Che ci mettono quel brividino?
A questa domanda, oggi rispondo con un ricordo.
Prima media, un’ora buca. Nessun supplente. Ci dividono in piccoli gruppi e ci mandano a seguire le lezioni in altre classi. Io finisco in una terza media, durante una lezione di italiano. La professoressa ci accoglie dicendo che siamo arrivati giusto in tempo per ascoltare un racconto: Il gatto nero di Edgar Allan Poe. Era il racconto giusto da leggere a dei ragazzi di prima media? Forse no, ma non mi interessa. Perché da quel momento non sono più tornata indietro.
Nessuno mi aveva mai detto prima che si potevano leggere – e scrivere – storie così. Storie che rendevano visibili le paure e le chiamavano per nome. Storie che facevano emergere l’inquietudine, il sinistro, il perturbante. Cose strane, oblique. Storie che non avevano paura di addentrarsi nell’ombra e nuotarci dentro, per poi trovare la luce. Quel giorno ho capito che la paura non era sempre un nemico, ma qualcosa che poteva essere liberatorio tirare fuori, ogni tanto. Ma anche bello, a suo modo. Che il genere – horror, in tutte le sue sfumature – ci mostra quanto la nostra illusione di controllo sulle cose sia effimera. Ma scrivere e leggere di paura non è mai solo questo: è un modo per avvicinarsi a sé stessi, per esplorare i propri limiti, per scoprire che, alla fine, il mostro o l’oscurità non sono poi così invincibile come sembra. E quando condividiamo storie come queste con chi ci legge, costruiamo ponti. Ci permettiamo di dire: “Non sei solo. Anche io ho paura, ma possiamo affrontarla insieme”.
È un ricordo che conservo in un cassetto, e ogni volta che scrivo o leggo di paura, lo riapro. Lascio che quella sensazione torni a sedersi accanto a me, e insieme scriviamo di nuovo.
Una richiesta
Con una mia amica (Silvia Bernardi, anche lei ha scritto un libro per ragazzi e ragazze molto bello, che trovi qui), una volta abbiamo scherzato sul fatto che “non si scrive per la gloria”. Ergo: i soldi. In realtà, chi scrive per ragazz* scrive per incontrare proprio loro, per avere la possibilità di parlarci, confrontarsi, ragionare sulla storia e sulla scrittura.
Quindi, da qui ecco la mia richiesta: se conosci una libreria, una biblioteca, hai contatti con le scuole medie del tuo paese o della tua città, e ti va di darmi una mano a portare il romanzo in giro per incontrare i ragazzi e le ragazze, scrivimi! Sarei felice di avere questa occasione preziosa ✨
A proposito di ponti, dunque. Se ti va, aiutami a costruirne di nuovi. Condividi questa storia, parlane, se leggi il libro scrivimi cosa ne pensi, se fai una storia taggami su Instagram (sono @svoltapagina), o scrivimi per organizzare un incontro. Portiamo la paura – e la magia delle storie – dove possono fare la differenza.
Grazie per aver letto fin qua! 🖤